Proposte | 13 aprile 2023, 08:41

Geishe, samurai e la civiltà del piacere

Geishe, samurai e la civiltà del piacere

di Francesco Amadelli

Quanto dista il Giappone da Torino? Molto in termini chilometrici, poco in termini culturali. Alla Promotrice delle Belle Arti, al Valentino di Torino, è in corso la Mostra “Geishe, samurai e la civiltà del piacere”, una delle più ampie e interessanti esposizioni dell’arte giapponese del periodo Edo, che per oltre due secoli contraddistinguerà la cultura di quel lontano Paese (1603 – 1868) in tutti gli aspetti, soprattutto nella stampa xilografica (tecnica d’incisione a rilievo su legni duri, generalmente a scopo di riproduzione a stampa). Il 1868 segnerà il passaggio del Giappone all’era Meiji ovvero l’era moderna.

Si trattò di un mezzo piuttosto a buon mercato e dalle enormi potenzialità espressive al quale aderirono molti artisti spinti dalla necessità di compiere una riflessione etica ed estetica sulla società dell’epoca. Fu soprattutto il ceto borghese, in fase di accrescimento economico ma non politico, a determinarne il successo per cercare di imporre idee e concetti nuovi in una società praticamente feudale.

L’arte ispirata a un genere di vita più raffinata e colta non disgiunta da una forte spinta edonistica divenne sinonimo di “moderno” con il termine ukiyo-e ovvero “immagini del mondo fluttuante”. Mondo fluttuante perché in perenne cambiamento, non più immobile come avrebbe voluto l’antica stirpe al governo della nazione.

Negli oltre 20 settori espositivi, lo spettatore attraverserà la transizione della società, dapprima con i disegni della “Giovane Hatsu” eseguiti dall’artista Hiroshige che si avvalse di artigiani stampatori ed editori in grado di riprodurre i suoi disegni preparatori apparentemente tutti uguali ma differenti nell’esecuzione tali da renderli unici. I disegni dell’artista Hokuba eseguiti con pennello e inchiostro verso il 1840 introducono un concetto nuovo cioè la rappresentazione di un lavoratore giapponese durante una normale giornata di attività con motivi di riflessione ed anche ironici.

I manga cioè i disegni di Hokusai, indiscusso artista del XIX° secolo, furono iniziati nel 1812 fino ad arrivare al ragguardevole numero di 300 illustrazioni divenendo una vera enciclopedia del disegno naturalistico: alberi, paesaggi, contadini, uccelli, animali e altri soggetti studiati anche dagli artisti impressionisti europei per la loro vividezza e perfezione. Grazie all’interessamento di un allievo di Hokusai la vasta mole di disegni finì rilegata in libri, oggi come allora di elevato valore artistico.

Non poteva mancare il monte Fuji, riprodotto da Hiroshige e Hokusai in un contesto di normale scampagnata o di semplice passeggiata. Rientrano anch’essi nel concetto di Mondo Fluttuante in grado di elargire all’osservatore un senso di tranquillità necessario all’animo umano.

Le vedute della città di Edo di Hiroshige sono considerate il suo capolavoro, dato che riproducono, con il saggio utilizzo dei colori, la città di Edo nel bienno 1856-1858 dopo il forte terremoto del 1855. Stampe evocative di momenti di normale vita cittadina e contadina esse ebbero successo anche in Europa tanto che Van Gogh volle riprodurne due con i colori a olio da lui comunemente usati. Le stampe sono accompagnate da brevi componimenti satirici-poetici creati dai committenti dei disegni.

Verso metà del nostro percorso ammiriamo il paravento decorato secondo i canoni della scuola Tosa e fu creato fra il XVII° e il XVIII° secolo, ricoperto di lamine d’oro sicuramente appartenne ad una famiglia altolocata e riproduce alcuni capitoli di un antico testo letterario dell’XI° secolo.

Il Banzuke, di cui è esposto un campione, era semplicemente un programma di spettacolo teatrale con la riproduzione dei visi degli attori del teatro Kabuki, in esso alcune righe sono dedicate alla pubblicità. Il Kabuki, a differenza del Teatro del No più antico e classico, era una forma leggera per portare una visione del mondo nipponico di tutti i giorni e godeva di molto successo. I Banzuke venivano appesi fuori dei teatri, agli angoli delle strade e sui muri come i nostri manifesti cinematografici. Kabuki inizialmente significava “contorsionismo” in seguito divenne sinonimo di “bravura nel canto e nella danza” stante a significare come gli spettatori dessero enorme importanza a queste due forme d’arte. A completamento di ciò viene esposto un costume kabuki di pregevole fattura con motivi della tradizione cinese, dalla quale derivava, con un dragone nel mezzo.

Le stampe di Sharaku (forse pseudonimo usato da Hokusai)  riproducono gli attori del Kabuki considerati all’epoca alla stregua dei divi moderni e per questo valorizzati come rarità. Gli attori indossavano delle maschere il cui valore evocativo, quasi sacro, divenne col tempo una caratteristica saliente di un attore il quale ne diveniva parte integrante. I trittici (spesso polittici) permettono di comprendere quale fosse il lavoro degli attori con tanto di mimica e gestualità in un contesto scenografico di alto livello artistico.

Il dittico di Masanobu ci riporta alla tradizione in cui giovani donne accompagnate dalle ancelle in una determinata ricorrenza recano in braccio delle tavole usate per un gioco simile al volano. I loro volti sono tutti uguali a significare come gli artisti giapponesi abbiano trovato in un certo momento del periodo Edo la perfetta ed unica rappresentazione della bellezza femminile.

L’artista Utamaro, al quale è dedicata la mostra assieme a Hokusai e Hiroshige, si propone in una stampa che ne è l’autoritratto mentre, circondato da belle donne, è intento a dipingere.

I Surimono furono stampe di piccole dimensioni riprodotte in tiratura limitata e considerate di notevole pregio. Le immagini si rifacevano quasi sempre a giovani donne, donne riccamente abbigliate oppure gheishe ma non mancavano ritratti di attori a loro volta committenti dell’opera.

Le stampe di bambini intenti al gioco, sebbene di epoca posteriore a quella Edo, ne mantengono lo spirito e rappresentano un aspetto tradizionale delle famiglie giapponesi più facoltose. Per valorizzarle maggiormente si procedeva alla goffratura cioè decorate con fili d’oro o trame costose. 

Gli shunga, opera di Hokusai, erano delle stampe dal chiaro significato erotico (oggi le definiremmo pornografiche) e mostrano l’accoppiamento con notevole precisione. Da esse nacquero gli Shunpon ovvero dei libri riproducenti scene erotiche a se stanti accompagnate da brevi descrizioni. Sarà Utamaro a rappresentare maggiormente le scene di erotismo fin nei dettagli senza tralasciare però l’aspetto psicologico dei due amanti. Una serie di 14 riproduzioni propone Komachi ovvero colei che a tutt’oggi è considerata a tutti gli effetti il simbolo della bellezza.

Le donne non furono soltanto oggetto del piacere maschile, esse vennero riprodotte anche nell’atto di combattere. Benchè rare le donne dettero prova di grande coraggio come Miaghino che vendicò la morte del padre ucciso da un Samurai per futili motivi.

La città di Edo con una popolazione di circa 500mila persone aveva al suo interno circa 200mila samurai, naturale quindi che Hokusai componesse libri dediti alle battaglie e all’arte della guerra destinati anche al ceto borghese.

Verso la fine della mostra ci appare una splendida armatura da samurai, oggetto dotato di una propria sacralità quindi intoccabile da chiunque non sia il legittimo proprietario. Il periodo Edo porrà fine alle lotte intestine ma il culto delle armature sopravviverà.

Il mondo fluttuante, cioè mutevole, ci riserva l’ultima meraviglia della mostra con il capolavoro di Hokusai cioè la grande onda divenuto icona di uno stile e di uno spirito totalmente nipponico. In lontananza il monte Fuji ammira la Grande Onda agitarsi, contemplandolo dall’alto della sua staticità.

Chiunque ami l’arte del Sol Levante troverà in questa mostra di che rimanere ampiamente soddisfatto.

La mostra è aperta fino al 25 giugno.