Catonarie | 17 marzo 2023, 10:45

Autonomia differenziata: perché la riforma non va

L'Osservatorio Cpi spiega le ragioni della bocciatura della riforma Calderoli

Roberto Calderoli

Roberto Calderoli

Il dibattito sulla cosiddetta “autonomia differenziata” – l’attuazione del comma 3 dell’art. 116 della Costituzione, che consente alle Regioni a statuto ordinario di ottenere “forme e condizioni particolari di autonomia” su un insieme vasto di materie – è stato rilanciato con forza a seguito dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un disegno di legge, presentato dal ministro Roberto Calderoli, che definisce i passaggi formali necessari per rendere operativa la norma costituzionale.

Ma in Italia esistono già da molto tempo forme di “autonomia differenziata” a livello regionale, non a caso ricordate e sancite dalla Costituzione nel medesimo articolo 116, ai commi 1 e 2. Si tratta delle cinque Regioni a statuto speciale (Rss) – Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia - introdotte nell’immediato dopoguerra per una pluralità di ragioni diverse: la protezione di minoranze linguistiche, il rispetto di trattati internazionali, la risposta a minacce secessionistiche, l’insularità.

A differenza delle Regioni a statuto ordinario (Rso), le cui competenze sono uniformi sul territorio nazionale come definite dall’art. 117 della Costituzione, l’attribuzione di risorse e competenze a ciascuna Rss è governata dal proprio statuto, che ha valenza costituzionale e dalle norme di attuazione dello stesso che, nel corso del tempo, sono state più volte riviste, in una dialettica costante con lo Stato nazionale.

Una domanda naturale che sorge è allora se le Rss possano rappresentare un modello per l’autonomia differenziata delle Rso, anche perché molti punti del Ddl Calderoli (il carattere “pattizio” delle intese Stato-Regione e delle loro eventuali modifiche future, il sistema di finanziamento prefigurato per le funzioni regionalizzate) sembrano richiamare molto l’esperienza delle Rss.

Ed ecco la risposta di Massimo Bordignon, Federico Neri, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi, autori del loro specifico articolo pubblicato dall'Osservatorio Cpi (Conti pubblici italiani), del quale riprendiamo l'inizio e la conclusione,

“La risposta – scrivono gli articolisti dell'Osservatorio Cpi dell'Università Cattolica di Milano - è che si dovrebbe cercare di evitarlo, per più ragioni. La prima è per la grande complessità che la presenza di cinque (in realtà sei, considerando separatamente le due Province autonome del Trentino-Alto Adige) Regioni a statuto speciale, ciascuna caratterizzata da un set di funzioni e risorse diverso, ha comportato per la gestione dell’amministrazione pubblica sul territorio di queste regioni. La storia delle Rss è una storia di conflitti e di negoziazione continua con lo Stato centrale per la gestione di risorse e competenze, resa più complessa dalla natura pattizia dei rapporti tra Stato e Rsse dallo status costituzionale degli statuti, che richiede lunghe contrattazioni tra le due parti per raggiungere compromessi”.

“Il meccanismo attuale con lo Stato che prima attribuisce generose compartecipazioni alle Rss e poi gliele toglie in parte per finalità di solidarietà nazionale, per quanto comprensibile alla luce della rigidità degli statuti, appare quantomeno singolare. Senza, dunque, negare i possibili vantaggi dell’attribuire alcune addizionali funzioni ad alcune (o tutte le) Rso – aggiungono - preoccupa immaginare un futuro in cui a seguito del Ddl Calderoli e delle richieste delle regioni, tutte le rimanenti quindici Rso si trasformerebbero in Rss, ciascuna delle quali con funzioni e risorse differenziate. La complessità amministrativa crescerebbe esponenzialmente, questa volta su tutto il territorio nazionale, con il rischio di rendere la vita a imprese e cittadini assai difficile dovendo confrontarsi con 21 legislazioni regionali differenti sulle stesse funzioni. È un rischio che va assolutamente evitato”.

“La seconda ragione – spiegano Bordignon, Neri, Rizzo e Secomandi - riguarda il sistema di finanziamento. Il modello di finanziamento delle Rss potrebbe essere sintetizzato con la formula “prima le risorse e poi le competenze”, mentre quelle delle Rso è attualmente basato su un meccanismo “prima i fabbisogni di spesa e poi le risorse”. Specificamente, nel caso delle Rss sono state prima stabilite delle quote di compartecipazioni ai tributi erariali e poi, a seconda di come le risorse derivanti da queste quote si sono evolute, si è deciso, attraverso una contrattazione con lo Stato, quali funzioni queste risorse dovevano coprire. Così, nelle Rss dove la dinamica delle basi imponibili è stata particolarmente vivace, le Rss hanno assunto via via nuove competenze, mentre nelle altre è intervenuto lo Stato nazionale per garantire comunque le risorse necessarie per finanziare i servizi. In più, pur con tutti i caveat che è necessario invocare in questo caso, visto le peculiari caratteristiche orografiche e storiche delle tre Rss del nord, i nostri conti suggeriscono che sia almeno probabile che le risorse lasciate a questi territori tramite le compartecipazioni siano state complessivamente maggiori di quanto sarebbe stato necessario per finanziare i servizi devoluti. E se questa “generosità” è sostenibile per il bilancio pubblico finché si parla di realtà assai piccole, è difficile che lo sia se lo stesso processo riguardasse le grandi Regioni del nord del Paese, dove si concentra una gran parte della base imponibile dei tributi nazionali”.

Gli autori dell'articolo dell'Osservatorio Cpi concludono: “Preoccupa dunque che il Ddl Calderoli sembri prefigurare un processo di finanziamento per le funzioni devolute alle regioni del tutto analogo a quello descritto sopra per le Rss. Da quello che si capisce, il modello di finanziamento del Ddl prevede un processo di devoluzione in cui al tempo zero le risorse vengono attribuite al livello regionale (tramite compartecipazioni al gettito dei tributi erariali) in modo da coprire la spesa attuale dello Stato nelle funzioni delegate. Se poi le risorse delle compartecipazioni cresceranno in futuro più di quanto necessario per finanziare queste funzioni, le risorse addizionali resteranno alle regioni; se no, tramite la Commissione paritetica prevista dal Ddl, lo Stato interverrà comunque per finanziare le spese aggiuntive. Ma così non può evidentemente funzionare: è un chiaro win-win per le regioni, ma rischia di essere un lose-lose per lo Stato e la restante collettività nazionale, costretti a rincorrere con extra risorse gli squilibri che così si possono generare. Non ci sembra un modello sostenibile”.


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