di Francesco Amadelli*
Difficile immaginare il filo rosso che lega gli artisti vissuti nell’ampio arco di tempo che va da Monet, rappresentante indiscusso dell’Impressionismo, a Picasso, gigante mondiale della pittura.
Seguiamo con interesse le spiegazioni di Barbara Stabielli dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, sapiente e appassionata cultrice dell’arte pittorica del XIX° e XX° secolo, per cogliere quelle “affinità elettive” alle quali le opere in esposizione alla mostra torinese “Da Monet a Picasso” si legano fra loro con diverse analogie.
E’ a Lady Phillips, mecenate sudafricana, il cui ritratto è esposto nella prima sala di Palazzo Barolo, che dobbiamo il merito di aver messo l’arte a disposizione del vasto pubblico, grazie alle sue idee lungimiranti; operazione che la pone a livello delle grandi Donne rimaste sconosciute ai più.
Si comincia con la Scuola dei pittori inglesi pre-raffaelliti, antesignani del realismo impressionistico; fra di essi spicca Rossetti, che ci porta in una dimensione nuova alla quale seguono i paesaggi di Turner, in grado di cogliere gli umori della Natura, della quale il francese Corbet rimane valido esponente.
Sarà l’arrivo di Monet, nel 1880, del quale vorremmo ammirare un maggiore numero di opere, a irrompere sulla scena artistica internazionale con i colori dell’emozione, soprattutto con il colore blu legato alla fama dei suoi dipinti dai quali egli escluse categoricamente il colore nero.
Iniziano gli anni della pittura en plein air, ovvero dal vivo, a conferire fama agli impressionisti francesi che si avvalsero di una invenzione semplice e geniale cioè i colori da pittura in tubetto con i quali potranno trasferirsi all’aperto per riprendere gli scorci paesaggistici che li resero immortali.
Sarà Manet a usare il colore nero, immergendosi dentro ai riflessi della luce e Degas ci mostrerà le “sue” ballerine non nel momento della danza ma nei periodi di pausa e di intimità.
Dopo una parentesi con Pizarro e Signac, esponente del puntinismo, sarà Van Gogh a trasmetterci, tramite la sua arte, un messaggio rivolto all’avvenire dopo una fase giovanile di pittura dai colori cupi.
Il filo rosso di cui parlavamo inizialmente non si interrompe neppure con una prima forma di espressionismo di Derain con “La ragazza dai capelli rossi” mentre Cezanne ci mostra “le bagnanti”.
La “Testa di Arlecchino” di Picasso ci accoglie con il suo sguardo, è il XX° secolo che irrompe violento senza che l’Umanità sia preparata. Andy Warhol, Summer e Lanbser ci trasportano negli anni ’50 del secolo scorso, quali eredi di quel bagaglio culturale della pittura europea nella quale, sebbene inizialmente occulti, a ben vedere sono evidenti le connessioni fra periodi e pittori diversi.
L’ultima sala, in omaggio a Lady Phillips, ci dà l’opportunità di conoscere alcuni pittori sudafricani dai quali scopriamo come l’arte mantenga sempre un filo rosso attraverso tutte le epoche.
La carrellata è veloce ma sufficiente per mostrarci quanto l’arte si svolga nel tempo senza soluzione di continuità; ogni artista rimane l’erede della bravura di colui che lo ha preceduto e dal quale ha ricevuto lo stimolo a trasmetterla a sua volta ad altro artista. Tutto con apparente facilità che rimane il vero segreto dell’arte.
La mostra torinese a Palazzo Barolo, fino al 7 maggio, suscita profondo interesse nel visitatore sebbene meritasse spazi più adeguati. L’esiguità degli ambienti espositivi rischia di portare a sottovalutare l’importanza dell’esposizione. Comunque da non perdere.
* Scrittore