Catonarie - 23 febbraio 2023, 17:28

Tasse, perché a pagare sono sempre i soliti

Tasse, perché a pagare sono sempre i soliti

Mentre l’Italia tassa relativamente poco i consumi (più che a causa di basse aliquote formali, soprattutto per la presenza di un’ampia evasione sull’Iva), l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro è più alta di quasi sei punti percentuali rispetto alla media dell’area euro.

Lo scrivono Massimo Bordignon, Federico Nero e Cristina Orlando in un articolo pubblicato da lavoce.info, dove, fra l'altro, si legge, che l’aliquota implicita sul capitale in Italia è più alta della media dell’area, ma per esempio se il confronto fosse limitato ai paesi più rilevanti, come Germania, Spagna e Portogallo, il livello di tassazione sarebbe sostanzialmente lo stesso.

I redditi da lavoro in Italia costituiscono il 52,5% del Pil, contro il 58,8 della Germania e il 57 della Francia. Tuttavia, data la più alta componente dei lavoratori autonomi in Italia rispetto a questi Paesi (19,6% contro il 12,1 per la Francia e il 7,7 della Germania), il dato sicuramente sovrastima la quota del lavoro dipendente in Italia rispetto a questi Paesi.

“La conclusione – scrivono gli autori dell'articolo – è che l’Italia si caratterizza per una minore importanza dei redditi da lavoro dipendente sul totale dei redditi, che vengono tuttavia tassati più della media europea”.

L'Irpef, che tassa soprattutto i redditi dei lavoratori dipendenti e assimilati, da sola provvede a più di un terzo del gettito tributario complessivo (36% del gettito sulla base di dati 2021). Questo anche senza considerare le entrate dalle addizionali regionali e comunali sull’Irpef, che producono altri 3 punti percentuali del gettito complessivo. Nel complesso, dunque, circa il 40% dell’intero gettito tributario italiano è dovuto a questa sola imposta.

La seconda imposta per importanza è l’Iva, un’imposta sui consumi finali, che produce da sola circa il 27% del gettito complessivo. Altre imposte rilevanti sui consumi sono le accise sui prodotti energetici, sui tabacchi e sulle lotterie. Nel complesso, le imposte sui consumi producono circa il 35% delle entrate tributarie complessive.

Tutti gli altri tributi - l'Ires (imposta sulle società), l’Irap e le imposte sostitutive sui redditi delle attività finanziarie possono essere considerate come prelievi sui redditi da capitale.

L’Imu, oltre ai terreni, colpisce solo gli edifici commerciali e le abitazioni non di residenza principale ed è formalmente un’imposta sul patrimonio, anche se per il modo con cui è calcolata (a partire dalle rendite catastali, una misura antica della redditività presunta del patrimonio) potrebbe anch’essa essere assimilata a un’imposta sui redditi da capitale.

Nel complesso, questi tributi producono circa il 15% del gettito tributario complessivo.

Il restante 10% del gettito è prodotto da una miriade di piccole imposte e tasse (bollo, registro, tasse sulle concessioni etc.).

Le prime sei imposte in ordine di gettito, dunque, generano da sole oltre l’80% delle entrate tributarie italiane.

“Specificamente, dalla sua introduzione nel 1974 - si legge nell'articolo de lavoce.info - l’Irpef ha subìto più di 1.000 interventi di riforma. L’originario sistema di tassazione, basato su trentadue scaglioni, è stato ridotto a quattro, recuperando una maggior progressività tramite l’introduzione di detrazioni decrescenti sul reddito complessivo (differenziate sulla base della fonte di reddito), a cui si accompagnano varie detrazioni e deduzioni (le cosiddette spese fiscali) per specifiche caratteristiche del contribuente”.

Gli autori dell'articolo aggiungono: “Oltre alla complessità del sistema, le principali criticità del tributo sono l’elevata evasione, da parte soprattutto dal comparto del lavoro autonomo e delle piccole imprese e la costante erosione della sua base imponibile”.

Questa seconda caratteristica è dovuta essenzialmente a tre fattori: l’introduzione di regimi speciali per particolari cespiti o categorie di contribuenti, che li hanno sottratti alla tassazione progressiva in sede Irpef, per sostituirli con una tassazione di tipo proporzionale; la proliferazione delle cosiddette spese fiscali, ovvero le sempre maggiori esenzioni, detrazioni e deduzioni concesse alla luce di condizioni o spese particolari; l’obsolescenza di alcuni meccanismi di determinazione dei redditi, per il mancato aggiornamento dei valori catastali di terreni e immobili.

Per quanto riguarda il secondo punto, si calcola che in Italia nel 2022 ci fossero 592 voci di spese fiscali definite come “misure che riducono o pospongono il gettito per uno specifico gruppo di contribuenti rispetto ad una regola di riferimento”. Per il 2022 si stima che per la sola Irpef l’ammontare di gettito perduto a causa delle spese fiscale superi i 42 miliardi di euro, che corrispondono a circa il 2,2% del Pil.

Invece, tra i principali esempi di imposte sostitutive o cedolari che hanno contribuito all’erosione della base imponibile Irpef merita ricordare: le imposte su redditi da capitale finanziario e i capital gains (Come nei principali Paesi europei, in Italia i redditi finanziari non confluiscono nella base imponibile ai fini Irpef, ma vengono tassati con imposte sostitutive, con una pluralità di aliquote che dipendono dalla tipologia adottata per l’impiego del risparmio); le imposte sostitutive (a cedolare secca) sui redditi da fabbricati a uso abitativo concessi in locazione per cui si stima che per il 2021-23 il ridotto gettito dovuto all’introduzione della cedolare secca sia nell’ordine dei 2,3 miliardi all’anno; infine, il regime forfettario per i titolari di partita Iva con fatturato inferiore agli 85.000 euro (a partire dall’anno in corso).

“Erosione della base imponibile, regimi speciali agevolativi per i redditi diversi dai redditi da lavoro dipendente, eliminazione dei redditi finanziari dalla sua base imponibile, elevata evasione concentrata però solo su alcuni redditi, mancata revisione del catasto degli edifici e dei terreni e altri fattori – scrivono Bordignon, Nero e Orlando - hanno inevitabilmente condotto a concentrare la pressione fiscale via Irpef soprattutto sui redditi da lavoro dipendente che, per loro natura (la tassazione alla fonte da parte del datore di lavoro), difficilmente possono sfuggire alla tassazione progressiva”.

Nel 2021 (con riferimento ai redditi 2020) il gettito Irpef complessivo, al netto della imposta pagata sui trattamenti pensionistici, è stato pari a circa 110 miliardi. Di questi, 86,5 sono riconducibili ai redditi da lavoro dipendente (78,3%). Solo il 21,7% del gettito è invece apportato dalla tassazione personale sui redditi da capitale, compresi i redditi d’impresa (4,1%), da lavoro autonomo (7,8 %), da fabbricati (2,8%) e quelli relativi alla partecipazione in società di capitali (5,8%).

Naturalmente, i redditi non da lavoro dipendente, che non vengono tassati in sede Irpef, se non evasi, possono essere tassati in altre sedi, tramite appunto le varie imposte cedolari esistenti. Tuttavia, per la pluralità di aliquote di imposizione e il loro basso livello complessivo rispetto alle aliquote fiscali Irpef, la loro tassazione effettiva risulta nella maggior parte dei casi inferiore a quella a cui questi redditi sarebbero sottoposti se fossero inclusi nell’Irpef.

Queste distorsioni nella base imponibile del tributo incidono pesantemente anche sulla sua capacità redistributiva. L’Irpef è stata concepita come un’imposta fortemente progressiva proprio alla luce del fatto che avrebbe dovuto tassare tutti i redditi riportati in capo al contribuente. E la progressività è andata addirittura crescendo nell’ultimo decennio, nonostante il basso numero di scaglioni, a seguito soprattutto di una serie di interventi a vantaggio dei redditi più bassi.

Ma è difficile giustificare una forte progressività dell’Irpef quando i redditi da lavoro dipendente, che adesso rappresentano solo il 41% di tutti i redditi degli italiani sulla base dei nostri conti svolti sui dati di contabilità nazionale – sottolineano gli autori dell'articolo - costituiscono viceversa circa l’80% della base imponibile del tributo, che a sua volta genera da solo circa il 40% di tutte le entrate tributarie”.

In più, l’elevata progressività finisce con il concentrare l’onere dell’imposta solo su una quota limitata di contribuenti, caratterizzati da redditi (da lavoro dipendente) medio-alti, con indubbi effetti distorsivi sull’offerta di lavoro e l’impegno lavorativo.

A fronte di 41 milioni di contribuenti che dichiarano redditi a fini Irpef, più di 10 milioni si collocano al di sotto dei 7.500 euro di reddito complessivo. Data la presenza di un reddito minimo (no tax area) al di sotto del quale l’imposta non è dovuta, questo implica che una larga parte di questi contribuenti non pagano il tributo.

Per i restanti contribuenti, si osserva che il 43% dichiara redditi inferiori ai 15.000 euro lordi e contribuisce solo per circa il 4% del totale del gettito Irpef. All’altro estremo, i contribuenti che dichiarano redditi sopra i 55.000 euro (meno del 5% del totale dei contribuenti) pagano da soli oltre il 36% del totale del tributo.

Per dirla in modo diverso, il 79% dei contribuenti Irpef dichiara meno di 29.000 euro annui e paga complessivamente poco più del 30% del tributo, mentre il restante 21% paga circa il 70% del gettito Irpef.

Gli autori dell'articolo concludono: “In un Paese di proprietari immobiliari, le imposte sulla casa sono impopolari, mentre attribuire benefici a particolari categorie di contribuenti ben rappresentate in Parlamento può generare importanti ritorni elettorali. In più, il fatto che le imposte sui redditi dei lavoratori dipendenti vengono incassate alla fonte dal datore di lavoro rende il prelievo poco trasparente e questo può consentire di aumentare la pressione fiscale su questi contribuenti senza generare reazioni di rigetto”.

“Tuttavia, il gioco può continuare solo fino ad un certo punto. Al di là degli ovvi aspetti di equità ed efficienza, c’è il tema della necessità di continuare a generare sufficiente gettito per finanziare la spesa pubblica, necessariamente in espansione per l’invecchiamento della popolazione e per i nuovi impegni presi in ambito internazionale, dalla difesa alla transizione energetica. C’è anche da mettere in sicurezza il debito pubblico, in una situazione di tassi di interesse crescenti”.


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