di Gustavo Mola di Nomaglio*
I festeggiamenti del Carnevale (posti dalla liturgia tra l’Epifania e le Ceneri e dal calendario folkloristico in un periodo dai confini assai più elastici) eredi degli antichi “Saturnali” e di altri riti arcaici di purificazione e propiziazione, non sono più, con l’eccezione di alcune, seppur importanti, singole manifestazioni o aree geografiche, sentiti come lo furono nei secoli scorsi. In Italia si assiste, perciò, a molti tentativi di ricuperare o rivitalizzare le tradizioni carnevalesche locali.
Nel febbraio 1847, in un articolo sul Carnevale d’Ivrea pubblicato nel settimanale culturale “Mondo illustrato”, Scipione Araldi poteva scrivere che “nel singolare modo di celebrare il carnevale l’Italia non conobbe e non conosce rivali”, poiché “tutte le città, tutti i più oscuri villaggi italiani sanno con una loro speciale guisa festeggiar gaiamente questa stagione”.
Almeno per quanto riguarda il Nord Ovest e soprattutto il Piemonte e la Valle d’Aosta l’affermazione risponde letteralmente al vero. Lo ha dimostrato, anni or sono, Luciano Gallo Pecca, censendo, in un monumentale volume pubblicato nel 1987, l’ancora attuale svolgimento di particolari feste carnascialesche, dalle antiche origini e peculiari tradizioni, quasi in ogni comune subalpino.
Tra i carnevali italiani (il cui lento declino era già denunciato, dopo gli splendori settecenteschi, nell’Ottocento, “secolo volto a cose più gravi”, secondo quanto si legge nell’Enciclopedia Pomba del 1843) erano famosi in particolare quelli di Roma, Milano e Napoli, anche se per magnificenza si distingueva soprattutto quello di Venezia, che, con le sue mascherate e la suggestione esercitata dalle centinaia di gondole cariche di donne e uomini in maschera lungo i canali, attirava più degli altri, spettatori da tutta l’Europa. E continua a farlo.
Anche il Piemonte poteva vantare carnevali suggestivi e famosi. Come quello di Torino, ben noto anche assai prima della –relativamente- recente comparsa dell’enigmatica e sovrannaturale figura del Gran Bogo, che si univa nella seconda metà del XIX secolo a Giandoja contro Annibale, consentendogli di liberare le donne rapite dai cartaginesi, invasori del Piemonte e del paese stesso, insofferente, senza compromessi, a qualunque dominazione straniera.
Di suggestivi festeggiamenti carnascialeschi a Torino, alla corte sabauda, si hanno notizie remote e anche dettagliate relazioni a stampa, la più antica delle quali, opera di tal Berthelot, fu pubblicata nel 1609, narrando delle fastose feste, balli, mascherate che si svolsero in quell’anno, e anche (in omaggio alla combattività della popolazione) della curiosa “correria dell’huomo armato”, assai in voga in quel tempo.
Questa consisteva in una sorta di combattimento contro un personaggio reale, talora un nerboruto “facchino” ben rivestito di ferro, che doveva essere colpito –ma senza subire danni- da cavalieri in corsa con la lancia o altre armi. L’ “huomo armato” aveva facoltà, se toccato troppo rudemente, di reagire, scaricando, come scrisse Stanislao Cordero di Pamparato nel 1930, botte da orbi sul cavaliere maldestro, che non poteva far altro che fuggire a rotta di collo.
In tutto il Piemonte molti altri carnevali storici potrebbero essere ricordati per originalità e spettacolarità, nel Canavese come nell’Astigiano, nel Cuneese, nell’Alessandrino e via dicendo. Da sempre era, però, considerato il più vivace e pittoresco quello d’Ivrea, che conserva ancora, come nessun altro in Italia. “l’indole medievale”.
Il Carnevale eporediese (come anche la “Lachera” di Rocca Grimalda e altri numerosi) trae spunto da una presunta insurrezione popolare contro un feudatario che avrebbe preteso di esercitare il “jus primae noctis” (un diritto, nella realtà, mai esistito). Di storico vi è solo il ricordo della cacciata del Marchese di Monferrato e della successiva spontanea dedizione di Ivrea a Casa Savoia.
Le manifestazioni eporediesi – e in primo luogo la battaglia delle arance - sono tutte spettacolari. Secondo Araldi, nell’Ottocento il momento in cui la scena diveniva più “originale, romanzesca e meravigliosa da non potersi con parole descrivere” era però “quando nella sera del martedì grasso migliaia di fiaccole girano illuminando in stranissima guisa la città …e viene appiccato il fuoco ad un’altissima antenna, che nella piazza d’ogni quartiere si erge, rivestita d’erica e di buona quantità di sfuggevoli razzi…”.
Alquanto meno generalizzati e radicati sembrano essere i festeggiamenti carnevaleschi in Liguria anche se, come scrive Vittorio Gleijeses, il fatto che Genova sia sempre stata “una città di gente seria e laboriosa” non significa che i genovesi non amino per il Carnevale “uscire dalla loro pelle abituale”. Risale al Cinquecento la curiosa usanza genovese d’impedire nel periodo carnevalesco ai mercanti di occupare con le loro merci i portici di Sottoripa col lancio di scorze d’arance e di limoni, onde consentire un agevole passeggio.
Di manifestazioni carnascialesche organizzate con particolare cura resta memoria in Genova principalmente con riferimento all’Ottocento, quando si svolgeva un lungo corteo di cittadini mascherati da crociati, mentre ali di folla applaudivano gridando “Viva Zena”.
Altre manifestazioni liguri con vecchie e suggestive tradizioni sono, ad esempio, quelle di Varazze e Sanremo; ad Ameglia, non lontano da La Spezia, il Carnevale trae spunto per il proprio svolgimento da una leggenda o tradizione secondo la quale i debitori del fisco erano in origine costretti a portare acqua di mare in vescovado o, più avanti nel tempo, gettati in uno stagno denominato Bozzo. Origini remote e precisi riferimenti storici ha il Carnevale di Borgio Verezzi, nel quale da antica data e per lungo tempo sfilarono carri e gruppi mascherati, mentre erano simulate aggressioni da parte dei saraceni, quasi per esorcizzare le incursioni dei musulmani, che per secoli terrorizzarono gli abitanti della costa con uccisioni e rapimenti.
* Storico, scrittore, vice presidente del Centro Studi Piemontesi