di Ernesto Auci*
È strano che prima di parlare di dare più poteri alle Regioni, nessuno abbia sentito il bisogno di verificare se le Regioni attuali abbiano avuto effetti positivi sulla gestione della cosa pubblica, se i cittadini ne abbiamo ricavato concreti benefici, o se invece si siano dimostrate sovrastrutture sostanzialmente inutili, capaci solo di complicare la vita ai poveri cittadini-sudditi.
La maggior parte dei poteri delle Regioni si concentra nella sanità che copre il 70-80% dei rispettivi budget. Orbene, nella recente crisi del Covid si è visto che pressoché tutti i modelli regionali hanno fatto flop. La Lombardia è stata la peggiore, ma poi anche il Veneto di Zaia ha pasticciato con i tamponi, mentre tutte le altre hanno registrato carenze più o meno gravi. E questo senza poter valutare l’efficienza delle cifre spese durante l’emergenza.
Sulle altre attribuzioni regionali non si ha evidenza di particolari successi. In agricoltura le varie Regioni hanno per lo più moltiplicato regolamenti e prescrizioni senza portare significativi vantaggi agli agricoltori, anzi. In Puglia, ad esempio, il “governatore” Emiliano si è opposto al taglio degli ulivi colpiti dalla Xilella, provocando una diffusione della malattia a centinaia di migliaia di piante. Per non parlare della sua opposizione al TAP, o per le sue demenziali intromissioni nella gestione della crisi del siderurgico a Taranto.
Per la politica industriale la maggior parte delle Regioni si è limitata a dare incentivi a pioggia che ben poco hanno contribuito allo sviluppo. Sulla gestione dei rifiuti si veda la difficoltà del Lazio, ma anche della Toscana, nel decidere dove collocare un termovalorizzatore del tipo di quelli che esistono in tutto il mondo anche nei centri delle città.
Si potrebbe continuare a lungo. Nel complesso non si può dire che i cittadini siano stati serviti meglio dalle Regioni rispetto allo Stato centrale. Né che i denari delle loro tasse siano stati spesi con più efficienza e più trasparenza.
I casi di interventi della magistratura nelle amministrazioni regionali sono all’ordine del giorno. Ed è una triste verità che accomuna le Regioni del Nord e quelle del Sud. Per non parlare di quelle a statuto speciale come la Sicilia, che può vantare il governo peggiore della storia.
Infatti, la Sicilia ha il doppio o il triplo dei dipendenti di Regioni di analoga popolazione e per di più i dirigenti sono molto meglio pagati. In tanti anni di autonomia non è stato possibile nemmeno risolvere il problema dell’acqua di cui tanti paesi sono ancora sprovvisti. La gestione del territorio è disastrosa, basta vedere cosa è accaduto ad Agrigento.
Dal punto di vista politico, le Regioni hanno aggravato la crisi dei partiti che sono sempre più aggregazioni di baronie locali semi-indipendenti. La conseguenza è che i partiti si dividono in bande, o correnti, occupate solo ad accaparrarsi una fetta del “bottino”. Ad esempio, in Sicilia la presidenza Schifani, eletta pochi mesi fa, è già in difficoltà per la scissione del gruppo Miccichè da Forza Italia.
Nel complesso, rispetto allo schema di rafforzamento dell’autonomia regionale preparato dal senatore Calderoli ci sono due obiezioni di fondo, una finanziaria e una politica.
Dal punto di vista finanziario, come ha messo in evidenza il prof. Nicola Rossi, la responsabilità delle Regioni sul peso fiscale da caricare sui propri cittadini non può attuarsi se non nell’ambito di una riforma fiscale complessiva di cui si era discusso nella passata legislatura, ma che per ora l’attuale governo non sembra collocare tra le priorità.
Le due cose non possono marciare separate e quindi la così detta autonomia differenziata non può essere accelerata come vorrebbe Salvini che sembra aver abbandonato le velleità di fare della Lega un partito nazionale per tornare sulla sua ispirazione nordista.
Ma anche più gravi sono le conseguenze politiche dell’attuale spezzettamento regionale. I Governatori, eletti direttamente dal popolo hanno acquistato un ruolo di vere e proprio baronie autonome rispetto al potere centrale dei partiti, i quali o sono diventati regni personali di qualche leader (come Berlusconi) o sono federazioni di baronie locali, incapaci quindi di esprimere una politica unitaria e ancor meno di avere una capacità di governo efficace in tanti settori cruciali, dall’energia, alle infrastrutture, dal mercato del lavoro ai trasporti.
Insomma, la riforma del 2001 è stata un disastro. Nel 2016 con la riforma del titolo V della Costituzione si cercò di porci riparo. Ma Renzi fallì il referendum e così sfumò l’opportunità di mettere un po’ di ordine nella confusione dei poteri di questo nostro povero Paese.
La cosa ora rischia di aggravarsi perché quasi tutti i partiti si sono detti favorevoli a ripristinare l’elezione dei consiglieri e del presidente delle Provincie.
Per la verità nel tempo si è visto che gli italiani sono più attaccati alla loro provincia che alla Regione. Uno di Mantova si sente mantovano prima che Lombardo e così uno di Cuneo o uno di Roma.
Provincie, città metropolitane e comuni sono organismi sentiti dalla gente. Si possono potenziare, ma allora bisogna ridurre il ruolo delle Regioni, comprese quelle a statuto speciale, che si è dimostrato sostanzialmente velleitario, e potenziare quello delle autonomie locali, magari spingendole e mettere in comune alcuni servizi che spaziano su territori più ampi.
E invece alla spinta regionalista di Salvini la Meloni risponde in modo altrettanto sbagliato portando avanti il presidenzialismo (senza ben specificare di cosa si tratta). Insomma, si vorrebbe contrapporre ai tanti capi bastone regionali uno dotato di un bastone ancora più grosso capace di far star buoni tutti i baroni locali.
Ma le cose non funzionano in questo modo. Al contrario si moltiplicherebbero i conflitti di competenza che già oggi ingorgano la Corte Costituzionale, aumentando la paralisi decisionale che è il male principale dell’Italia.
Esiste in realtà l’esigenza di rafforzare il nostro esecutivo. Come ha dimostrato il prof. Sabino Cassese, questa esigenza si raggiunge attraverso il rafforzamento del presidente del consiglio, sulla scia del cancellierato tedesco, senza toccare la figura del capo dello Stato che in questi anni ha dimostrato di essere una garanzia dell’unità nazionale e anche un punto di riferimento indispensabile per costituire governi capaci di far uscire il Paese da gravi situazioni di crisi.
Alla fine, quello che poi conta è la qualità degli uomini che noi cittadini eleggiamo ai posti di governo. E tuttavia gli assetti istituzionali contano molto sia per far emergere le persone migliori nei posti di comando, sia per far capire meglio ai cittadini cosa possono aspettarsi dai politici e cosa invece non possono chiedere, perché le istituzioni impediscono di fare cose che avvantaggerebbero pochi a danno di molti.
Per il momento la scarsa qualità dei nostri assetti istituzionali sta spingendo i cittadini a eleggere demagoghi da quattro soldi, comici che non fanno più ridere, eredi di vecchie idee novecentesche che una volta al potere devono buttare a mare la loro vecchia cultura e affrontare un periodo di apprendistato per dotarsi di nuove idee adatte ai tempi. E la formazione avviene a spese del Paese nel frattempo lasciato in balia di sé stesso. E poi non sempre la formazione ha esisti positivi.
* Presidente di Firstonline, ex direttore e amministratore delegato del Sole 24 Ore