Catonarie | 19 gennaio 2023, 08:16

Autonomia regionale senza autonomia fiscale?

Roberto Calderoli

Roberto Calderoli

Pubblichiamo un ampio stralcio dell'articolo di Massimo Bordignon, Federico Neri, Cristina Orlando e Gilberto Turati, pubblicato dall'Osservatorio Cpi dell''Università Cattolica di Milano intitolato “Autonomia differenziata senza autonomia fiscale?”

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Ci sono temi che, come un fiume carsico, dopo essere rimasti silenti a lungo, ogni tanto riemergono con forza nel dibattito politico italiano. È questo il caso della cosiddetta “autonomia differenziata”, cioè l’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni a statuto ordinario che ne facessero richiesta, a seguito di un’intesa tra queste e il governo e previa approvazione da parte del Parlamento (che si esprime a maggioranza assoluta dei componenti).

Questa opportunità è espressamente prevista dall’art. 116 della Costituzione italiana, così come rivisto dalla riforma del Titolo V del 2001. Lo stesso articolo identifica le numerose materie (ventitré, enumerate nell’art. 117) su cui tali richieste sono considerate ammissibili: tutte le materie a legislazione concorrente tra Stato e Regioni e tre specifiche materie a legislazione esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull'istruzione; tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali).

Alcune Regioni, soprattutto del Nord, hanno più volte in passato chiesto maggiori competenze (e risorse) alla luce di questo articolo, senza tuttavia essere mai riuscite a trovare un accordo con i vari governi che si sono succeduti nel corso degli anni, sia per la complessità tecnica della questione che per i delicati profili finanziari e politici che le proposte di devoluzione sollevano.

Con il nuovo governo, il tema ha subito un’improvvisa accelerazione, per l’attivismo del nuovo ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli. Il ministro ha già presentato un disegno di legge, ancora da depositare e da approvare in Consiglio dei ministri, che definisce in dettaglio le procedure per attivare l’art. 116, nonché per identificare le risorse che dovrebbero accompagnare la devoluzione di ulteriori spazi di autonomia su alcune materie alle Regioni.

Il dibattito attuale è molto concentrato sul “quanto”, cioè su quante risorse dovrebbero essere attribuite alle diverse Regioni per svolgere le nuove funzioni e molto poco sul “come”, cioè sulla forma che questi meccanismi di finanziamento dovrebbero assumere.

C’è il rischio serio che, così facendo, l’autonomia differenziata si traduca in una forte crescita delle competenze di spesa delle Regioni, senza che si introducano contemporaneamente meccanismi che le incentivino a controllarne la dinamica, con risultati potenzialmente devastanti per le finanze pubbliche.

Alla fine degli anni Novanta, il problema dell’autonomia tributaria regionale sembrava aver trovato una soluzione definitiva attraverso l’introduzione dell’Irap, un acronimo che non a caso sta per Imposta Regionale sulle Attività Produttive. Il nuovo tributo regionale sostituiva numerose altre imposte (tra cui i contributi sanitari sui redditi dei lavoratori dipendenti, la tassa sulla salute per gli autonomi e l’Ilor, l’Imposta Locale sui Redditi, un’imposta sui profitti societari) e grazie alla sua ampia base imponibile (una misura del valore aggiunto netto complessivo dell’economia) era in grado di sollevare un ampio gettito anche con aliquote molto ridotte.

L’aliquota di base al momento dell’introduzione (1° gennaio 1998) era del 4,25% (successivamente ridotta al 3,9%), ma le Regioni avevano la facoltà di aumentarla o ridurla di un punto percentuale, oltretutto differenziando tale variazione per settori produttivi e categorie di contribuenti.

Il nuovo tributo avrebbe dovuto garantire l’autonomia tributaria regionale, rendendo il processo di devoluzione irreversibile. Ma già nel 2003, una famosa sentenza della Corte costituzionale aveva stabilito che l’Irap era in realtà un tributo proprio “delegato” in quanto istituito dall’assemblea legislativa nazionale (il Parlamento) e non dai consigli regionali.

La sentenza ha aperto la strada ad interventi legislativi del governo nazionale, che è infatti continuamente intervenuto sul tributo negli anni successivi per mere finalità di aumento o riduzione della pressione fiscale. Il culmine si è raggiunto nel 2015, quando il governo Renzi eliminò la principale componente della base imponibile dell’Irap, il costo del lavoro.

Nel 2022, il governo Draghi ha stabilito che anche le persone fisiche esercenti attività commerciali con reddito d’impresa e altri titolari di partita Iva devono essere esentati dal versamento dell’imposta regionale.

A questo punto, l’Irap ha perso ogni razionalità, diventando semplicemente una sovra-imposta sui profitti aziendali, in contrasto con il suo presupposto giuridico. Non a caso, la legge delega di riforma del sistema tributario, approvata dal Consiglio dei ministri nell’ottobre 2021 ne prevedeva la graduale abolizione.

I continui interventi legislativi ne hanno anche ridotto il gettito, che è passato (in termini nominali) da 36,8 miliardi di euro nel 2007 a 24,8 miliardi nel 2019 (ultimo dato disponibile). I mancati gettiti nel bilancio delle Regioni sono stati sostituiti di fatto da trasferimenti erariali.

Contestualmente all’Irap, è stata introdotta nell’ordinamento tributario italiano anche l’addizionale regionale Irpef, allo scopo di aumentare l’elasticità dei bilanci regionali e di far partecipare al finanziamento della spesa regionale anche contribuenti esenti da Irap.

L’addizionale è dovuta da tutti i contribuenti tenuti a versare l’Irpef ed è definita da un’aliquota, decisa dalla Regione o Provincia Autonoma dove risiede il contribuente, da applicare al reddito complessivo determinato ai fini dell’Irpef, al netto di oneri e detrazioni spettanti.

Il gettito dell’addizionale Irpef concorre a finanziare la spesa sanitaria e la Regione è tenuta ad aumentarla nel caso sia sottoposta a piani di rientro dal deficit sanitario. L’aliquota minima dell’addizionale era originariamente fissata allo 0,5 per cento, mentre la massima all’1 per cento. Solo due anni dopo, l’intervallo è stato modificato, con un’aliquota massima dell’1,4 per cento e una minima dello 0,9. Questi limiti sono stati poi rivisti continuamente al rialzo: dal 2012, l’aliquota minima è pari all’1,23 per cento e dal 2015 non può essere maggiorata più del 2,1 per cento, consentendo un’aliquota massima applicabile del 3,33 per cento.

In poco più di vent’anni dalla sua introduzione, il gettito dell’addizionale regionale Irpef è più che raddoppiato, raggiungendo 12,3 miliardi riscossi nel 2019, scesi a 12 nel 2020.

Oltre alle imposte citate finora, le Regioni possono riscuotere ed utilizzare altri tributi propri, quali: la tassa automobilistica, anche nota come “bollo auto”; l’imposta regionale sulle concessioni di beni del demanio; la compartecipazione regionale all’accisa sulla benzina (abrogata però a partire dal 2021); l’addizionale regionale all’accisa sul gas usato come combustibile.

Tra queste voci di entrata, l’unica rilevante è la tassa automobilistica, il cui gettito a livello nazionale ammonta a circa 4,1 miliardi di euro all’anno. Tale tributo fu istituito nel 1953 dal governo De Gasperi ed era riscosso a livello centrale in quanto le Regioni a statuto ordinario, benché già previste dalla Costituzione, non sono state introdotte come livello di governo autonomo fino al 1970. Con la legge n. 449/1997, lo Stato ha decentrato il potere di riscossione del bollo auto a livello regionale, dando alle stesse Regioni la possibilità di utilizzare tali risorse per il finanziamento del loro bilancio.

Se, come è intenzione del governo, i progetti di autonomia differenziata andranno avanti, siamo probabilmente alla vigilia di un ulteriore, forte, decentramento della spesa. In teoria, le diverse Regioni potranno chiedere pacchetti di funzioni differenziati nell’ampia collezione di materie indicate dall’art. 116, ma non è impossibile che per gli effetti di imitazione, il decentramento in realtà finisca con il coinvolgere molte funzioni e molte, se non tutte, le Regioni italiane.

Questo creerà diversi problemi, di equità, come di efficienza. In questa nota, abbiamo posto l’accento solo su uno di questi: il problema di come finanziare a livello regionale questa nuova e più ampia spesa.

Il disegno di legge del ministro Calderoli parla vagamente di “compartecipazioni a uno o più tributi erariali” come fonte di finanziamento principale delle nuove spese devolute, ma non sembra esservi coscienza dei possibili effetti distorsivi derivanti dall’attribuire forti competenze di spesa a un ente territoriale senza introdurre allo stesso tempo meccanismi di responsabilizzazione su questa spesa. Come si è documentato in precedenza, contrariamente al periodo del decentramento e forse anche ai dettati della stessa Costituzione italiana, lo “sbilanciamento verticale” è andato fortemente crescendo negli ultimi anni per le Regioni italiane.

Un ulteriore decentramento della spesa, finanziato con compartecipazioni e trasferimenti, renderà il problema ancora più serio.

Come se non bastasse, è in fase di smantellamento il principale tributo proprio delle Regioni (l’Irap) e l’Irpef è ridotta in condizioni tali da sconsigliare un ulteriore ampliamento dell’autonomia regionale su questo tributo. Si rischia, insomma, di ritornare al passato, al periodo precedente al decentramento degli anni Novanta, con tutti i relativi problemi finanziari che, come Paese, abbiamo già conosciuto. È necessario che il dibattito sull’autonomia differenziata, che sicuramente si accenderà nei prossimi mesi, tenga conto anche di questi aspetti. 


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