di Francesco Amadelli*
Intendiamoci bene. Di Gianna Baltaro, una delle migliori gialliste nostrane e torinese per giunta, scomparsa pochi anni or sono, non è accettabile qualsivoglia comparazione con altri scrittori di romanzi gialli, neppure con la più famosa Agatha Christie le cui analogie letterarie si fermano semmai alla descrizione di ambienti, quelli inglesi questi italiani, fatti di pettegolezzi, frasi pronunciate a mezza bocca, cattiverie da portinaie.
Gianna Baltaro rimane unica per la modestia e la finezza con la quale descrive la società torinese anteguerra della quale, inevitabilmente, stiamo perdendo il ricordo. Non è cosa da poco, dato che la Torino ormai scomparsa non è un reperto archeologico lontano nel tempo, molti testimoni di quell’epoca sopravvivono ancora.
Forse sbagliano i recensori delle sue opere a considerarla principalmente scrittrice di romanzi gialli perché, nel corso della lettura, la descrizione degli ambienti, degli individui che li animano, dei mestieri ormai scomparsi (il ricordo delle lavandaie di Bertolla è una delle pagine più belle del libro) hanno il sopravvento sulla storia poliziesca che vede, guarda caso, un omicidio.
Gli estimatori della nostra città avranno l’opportunità di compiere una full immersion (perdonateci l’anglicismo) in tempi di cui poco si parla in termini di socialità e viver comune data la concomitanza con il periodo fascista.
Il lettore viene così catturato e trasportato in salotti anni trenta con centri-tavolo all’uncinetto, sigarette di marche evocatrici il colonialismo italiano, cinematografi con platee fumose e gonne sotto il ginocchio: una perfetta fotografia di ciò che fu, né disprezzabile né malinconicamente nostalgica.
La storia de “L'uomo dal soprabito grigio” (Golem Edizioni) inizia con l’uccisione di colui che, per consuetudine, non dovrebbe mai morire, cioè un investigatore privato dell’agenzia “La Faina”. A differenza dei precedenti sedici casi della Baltaro stavolta i personaggi sono molteplici, la storia si fa più complessa e il caso apparentemente più difficile da risolvere.
Ci vorrà la pazienza e l’acume del commissario Martini per dipanare la matassa, muovendosi fra i salotti torinesi e la valle di Lanzo in un’epoca nella quale l’utilizzo dell’automobile era scarso come scarsa era la circolazione. Significativa la nota della scrittrice circa la Fiat Balilla nata nel 1932, anno di conquiste, novità ed eventi che ben si inserisce nel racconto a ricordarci come quella semplice vettura entrò a far parte del panorama quotidiano di Torino.
Da non perdere, come tutti i precedenti racconti ovviamente.
* Scrittore, storico dell'auto