Catonarie | 23 dicembre 2022, 11:28

Fondazioni d'origine bancaria, il rischio patrimonio

Alessandro Del Castello

Alessandro Del Castello

di Alessandro Del Castello*

In questo periodo le Fondazioni stanno compiendo i loro primi trenta anni di vita, in piena salute. Sarà così fra altri trent’anni? Non è una domanda oziosa né un cattivo auspicio, tutt’altro. E’ proprio questa prima tappa che stimola alcuni interrogativi che andrebbero affrontati per salvaguardarne il loro ruolo a sostegno del welfare locale.

Le Fondazioni di origine bancaria, al pari delle altre fondazioni di diritto comune, sono ontologicamente un patrimonio destinato al perseguimento degli scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico assegnati loro dal legislatore.

Per raggiungere tali scopi, secondo le modalità operative individuate da ogni ente, il legislatore ha introdotto una seri di paletti di ordine normativo che risentono della immotivata sfiducia che lo stesso aveva nei loro confronti, ancorché mosso da uno spirito riformatore. Sfiducia che originava dal timore che le Fondazioni tesaurizzassero i proventi derivanti dall’investimento delle risorse patrimoniali, in danno delle finalità istituzionali.

Nei fatti, le Fondazioni hanno dimostrato che le iniziali riserve erano mal riposte, avendo erogato, dalla legge di riforma del 1999, oltre 25 miliardi di euro e accresciuto il patrimonio, nel medesimo periodo, di circa 9 miliardi.

Tuttavia, i predetti paletti normativi, seppur condivisibili sotto il profilo della finalità, ossia tutelare, da un lato, la sana e prudente gestione e, dall’altra, gli interessi contemplati dagli statuti in termini di erogazioni, rischiano di costituire in prospettiva un vincolo che può minare la stabilità patrimoniale delle Fondazioni.

Assumono rilievo al riguardo, i vincoli posti alla destinazione dei proventi diretti esclusivamente alla salvaguardia dell’attività erogativa e che riducono, se non addirittura annullano, i margini per una efficace difesa del patrimonio.

Se si esclude, infatti, la facoltà di “patrimonializzare” le plusvalenze (cui di converso corrisponde l’obbligo di portare in detrazione le eventuali minusvalenze) conseguite con la dismissione delle partecipazioni nelle società bancarie conferitarie, e che 72 Fondazioni hanno già sfruttato, la possibilità di salvaguardare in futuro il valore del patrimonio è limitata ai soli accantonamenti in una misura prefissata, pari al massimo al 35%, dell’avanzo di gestione, ove questo venga realizzato.

Il contributo al cennato incremento patrimoniale di 9 miliardi, derivava, a fine 2021, per circa il 5% dalla patrimonializzazione delle plus e minus derivanti dalla cessione della conferitaria, per il 67% dagli accantonamenti alla riserva obbligatoria e per il 28% dagli accantonamenti per l’integrità del patrimonio.

Tuttavia, la crescita annua del patrimonio derivante dai citati accantonamento di proventi (a riserva obbligatoria e a tutela dell’integrità) è stata mediamente pari a poco meno dell’1% annuo.

Le Fondazioni, quindi, non sono in grado, strutturalmente, non solo di accrescere ma neanche di contrastare le perdite di valore che i patrimoni subiscono per effetto di eventuali processi inflattivi.

Tutto ciò appare evidente laddove si prenda in considerazione l’ipotesi che, come avvenuto quest’anno, il tasso di svalutazione monetaria assuma dimensioni rilevanti e ciò si determini su un orizzonte pluriennale. In questo caso, nonostante l’impegno delle Fondazioni ad adottare politiche di diversificazione degli investimenti e il conseguimento di un livello di avanzo commisurato al medesimo tasso di deprezzamento monetario, l’accantonamento che ne deriverà sarà sempre inadeguato a fare fronte alla svalutazione.

Da una rapida simulazione effettuata sulla evoluzione dei patrimonio delle Fondazioni dal 2000 al 2021 emerge, infatti, che la dotazione patrimoniale delle Fondazioni è cresciuta in questi 22 anni a un tasso medio annuo di circa il 1,2%, passando dai 31,3 miliardi del 1999 ai 40,2 del 2021, a fronte di un tasso di svalutazione, posto pari al deflatore implicito del Pil nel medesimo periodo, dell’1,7%, ancorché le Fondazioni, nell'amministrare il patrimonio, abbiano operato osservando criteri prudenziali di rischio che, secondo le previsioni del legislatore, sarebbe finalizzato a “conservarne il valore ed ottenerne una redditività adeguata”.

In realtà, la diversificazione degli investimenti cui fa riferimento il legislatore non appare indirizzata a stabilizzare il valore del patrimonio, bensì ad assicurare il contenimento di eventuali perdite e, in ultima analisi, a evitare che incidano sulla redditività da destinare agli scopi istituzionali.

Ne deriva, dunque, che in prospettiva il patrimonio delle Fondazioni è destinato a subire un progressivo impoverimento, con conseguente riduzione della capacità erogativa che finirà con l’essere sostenuta anche attraverso le risorse patrimoniali, progressivamente erose dalla perdita di valore monetario.

Per ovviare a tale situazione prospettica, un possibile rimedio potrebbe essere quello di consentire a ogni Fondazione di distinguere gli investimenti patrimoniali fra investimenti con finalità reddituale, per il sostegno delle erogazioni, e investimenti con finalità patrimoniale, per l’integrità del patrimonio. In tal modo si verrebbe a conciliare l’esigenza di assicurare un adeguato livello di erogazioni con la ricerca di una maggiore stabilità patrimoniale in ragione del ruolo e dell’importanza che le Fondazioni hanno assunto nei territori in cui operano in ossequio al principio costituzionale di sussidiarietà.

Per cui, escludendo l’approccio deterministico secondo cui, stante l’attuale situazione, prima o poi le Fondazioni sono destinate ad auto-consumarsi, la composizione delle suddette finalità, ossia salvaguardia del patrimonio e tutela delle erogazioni, potrebbe conseguirsi introducendo nell’attuale normativa relativa alla diversificazione del patrimonio la possibilità di investire una quota del patrimonio finalizzata al suo accrescimento. Ad esempio prevedendo che “Le fondazioni possono investire una quota, non superiore al … per cento, del proprio patrimonio in strumenti finanziari e imputare direttamente allo stesso le relative plusvalenze”.

* Esperto del settore



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