Storia & storie | 17 dicembre 2022, 09:14

Quella "Volpe" che ha fregato i creditori

Quella "Volpe" che ha fregato i creditori

di Francesco Amadelli*

Chi è in grado di ricordare la società Anonima Lombarda Cabotaggio Aereo? Probabilmente nessuno, eppure nell’ampio universo di costruttori di automobili nel marzo del 1947 si inserì anche questa piccola azienda milanese.

Nel 1948 questa meteora automobilistica scomparve trascinandosi dietro una fama poco rispettabile dato che i potenziali clienti persero completamente gli anticipi versati ammontanti a circa 300 milioni di lire: cifra considerevole paragonabile a circa 5 milioni di euro attuali. Ma andiamo con ordine.

Siamo nell’immediato dopoguerra, gli italiani sentono voglia di evasione e quale miglior mezzo per ottenerla se non con l’automobile. Le vetture presenti sul mercato, soprattutto usato, sono anteguerra quindi dispendiose e non certo parche nei consumi, la Fiat sta per lanciare la nuova versione della Topolino: la B, mentre la C arriverà nel 1953.

Cominciano a comparire motorini e motorette oppure motociclette con il side-car per trasportare tutta la famiglia. Insomma ci si arrangia in tutte le maniere facendo affidamento su un codice della strada vetusto poco rispettato e ancor meno applicato.

Lancia e Alfa Romeo lanciano sul mercato vetture per portafogli rigonfi non certo alla portata di tutti. C’è un gran fervore in tutti i campi tant’è che due grandi personaggi come l’ingegnere Gioacchino Colombo, progettista dei primi motori Ferrari, e il designer Flaminio Bertoni, ideatore fra l’altro della carrozzeria della Citroen DS19, si uniscono per dare vita a un’auto più simile a un giocattolo che a un mezzo di trasporto. Nasce la “Volpe”.

Eppure siamo certi che le intenzioni dei due progettisti fossero buone se pensiamo che la vetturetta presentava delle soluzioni tecniche all’avanguardia: motore di derivazione motociclistica montato posteriormente, un 2 cilindri in linea di 124 cc raffreddato ad aria e 6 CV di potenza, alimentato a miscela. La lunghezza era di circa 2,50 mt per una larghezza di poco più di un metro, peso kg.132, carrozzeria portante in lamiera di acciaio, velocità massima 75 Km/h, parabrezza in resina sintetica e capote in tela, cambio a 4 marce con preselettore + RM, inseribili tramite doppio comando alla frizione (soluzione adottata in quegli stessi anni dalla Cisitalia di Dusio). Freni a tamburo e sospensioni a balestra trasversale anteriormente e due mezzi balestrini longitudinali posteriormente.

La carrozzeria era simpatica e la vettura prometteva di procurare divertimento ed evasione. Fu dato ampio risalto al lancio di un’auto che avrebbe rivoluzionato la società italiana del dopo-guerra rendendola ancor più dinamica e moderna.

Al lancio, avvenuto a Roma nel marzo del 1947, venne invitato il comico torinese Erminio Macario il quale rimase entusiasta e promise di apparire in scena in una delle sue “riviste” teatrali ritenendola un’idea innovativa. Avrebbe fatto qualche giro sul palcoscenico seguito dalle sue famose “donnine” che non mancavano mai e per le quali il comico divenne celebre. Macario fu fedele alla promessa e in un paio di occasioni fece ingresso in palcoscenico a bordo della Volpe suscitando ilarità e successo.

I costruttori pensarono alla grande e intravidero un futuro nei Paesi stranieri fra i quali la Spagna, in cui venne creata la società Hispano Volpe, oltre che in Marocco e in America latina. A conferma della loro buona fede iscrissero ben cinque vetture alla Mille Miglia di quell’anno le quali però non si presentarono al via. A quel punto apparve chiaro che le loro intenzioni non erano improntate alla buona fede. Nel 1948 fu sancita la chiusura definitiva dell’azienda con strascichi giudiziari e relativa sentenza di bancarotta fraudolenta.

La Volpe, nome azzeccatissimo, si dimostrò astuta, ingannando tutti i creditori, andando così ad arricchire il già lungo elenco di aziende dalla breve vita e destinato ad allungarsi sempre più negli anni a venire. Avrebbe meritato un destino migliore, ma al suo affondamento contribuì, non sappiamo in qual misura, anche l’atteggiamento ostile della Fiat, il cui patron Vittorio Valletta non ammetteva ingerenze da parte di nessuno nel campo delle vetture utilitarie sulle quali il colosso torinese stava investendo cifre considerevoli. Pochissimi esemplari sono sopravvissuti e ora sono in mostra in alcuni musei fra i quali il Taruffi di Bagnoregio (VT).

* Storico dell'auto, scrittore