Notizie | 27 marzo 2022, 17:31

La fotografia di Mediobanca sul sistema moda

Modelli 2022 della Motivi del gruppo Miroglio

Modelli 2022 della Motivi del gruppo Miroglio

L’Area Studi Mediobanca ha presentato il nuovo report sul sistema moda, che aggrega i dati finanziari di 70 multinazionali della moda e delle 134 grandi aziende Moda Italia. Report che inizia con la stima che per l’intero anno 2021 i primi dati indicano una repentina ripresa a “V”, con una crescita del 28% del fatturato a livello aggregato, il che permette alle multinazionali della moda di superare i livelli pre-crisi. In particolare, le vendite online proseguono nella loro crescita (accelerata durante la pandemia), raggiungendo oltre un quarto del giro d’affari complessivo.

Nel 2020, i 70 maggiori player mondiali della moda (società con un giro d’affari superiore a un miliardo di euro), hanno fatturato complessivamente 379 miliardi di euro (-13,8% sul 2019), di cui il 55% generato dai gruppi europei e il 34% dai nordamericani. Il calo del 2020 ha fatto arretrare i ricavi delle multinazionali della moda di tre anni, fino ai livelli del 2017.

Fra i 30 gruppi europei, l’Italia con le sue sette big è il Paese più rappresentato a livello numerico, ma è la Francia, con una quota del 38% del fatturato aggregato, ad aggiudicarsi il primato per giro d’affari. Al primo posto per ricavi, tra i colossi mondiali, c’è LVMH (44,7miliardi). Seguono Nike (36,3), Inditex, che controlla Zara (20,4), la tedesca Adidas (19,8), la svedese H&M (18,6), la giapponese Fast Retailing, che detiene il brand Uniqlo (15,9) ed EssilorLuxottica (14,4). Prima italiana Prada (2,4 miliardi), al 38° posto in classifica.

In contrazione anche la redditività (ebit margin aggregato al 9,7% dal 13,3% del 2019), in base alla quale Hermès si conferma al primo posto (ebit margin al 32,2%), davanti a LVMH divisione Fashion (30,5%), Moncler (25,6%) e Kering (23,9%).

Il giro d’affari 2021 delle grandi aziende italiane della moda (società con un fatturato superiore a 100 milioni di euro) dovrebbe risultare superiore del 22% a quello del 2020, con un ritorno ai livelli pre-crisi atteso nel 2022. Dopo anni di andamenti più che positivi, nel 2020 le grandi aziende Moda Italia hanno subìto un duro contraccolpo a causa della pandemia, registrando un giro d’affari totale di 49,8 miliardi, in contrazione del 22,8% sul 2019 e del 9,7% sul 2016. Il loro peso sul Pil nazionale è dello 0,9% (1% nel 2016).

Tra i comparti spicca l'abbigliamento, che determina il 43,9% dei ricavi aggregati, seguito da pelli, cuoio e calzature (27,1%). Quanto al trend delle vendite nel 2019-2020, il tessile registra il calo maggiore (-34,6%), mentre la gioielleria il minore (-19,8%). In sofferenza anche la redditività con l’ebit margin aggregato che scende all’1,8% (dal 7,8% del 2019). Gioielleria e tessile sono i comparti più redditizi nel 2020 (ebit margin, rispettivamente, del 6,9% e 3,2%).

Si conferma importante la presenza di gruppi stranieri nella moda italiana: 59 delle 134 grandi aziende Moda Italia hanno una proprietà straniera, che controlla il 38,5% del fatturato aggregato (il 19,1% è francese, fra cui Kering con l’8,7% e LVMH con il 6,4%). L’impatto della crisi è stato più evidente per le imprese a controllo italiano rispetto a quelle a controllo estero: sia in termini di ridimensionamento del giro d’affari (-23,3% rispetto a -22%), sia in termini di contrazione della reddività.

La proiezione internazionale è una delle caratteristiche più rappresentative delle società manifatturiere della moda italiana; infatti, il 66,6% del fatturato complessivo proviene dall’estero, con in testa la gioielleria (75,7%), l’abbigliamento (69,9%) e il tessile (68,3%). Nel 2020 è calata anche l’occupazione, con circa 15.400 addetti in meno (-5,5% sul 2019, ma +6% sul 2016), per una forza lavoro totale di quasi 265mila unità a fine 2020.

Dall’analisi della varietà di genere nei board delle 70 multinazionali mondiali della moda emerge che la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità in azienda: la quota di donne sul totale della forza lavoro è mediamente pari al 64,3%, ma scende al 43,% nei ruoli direttivi e al 32,7% a livello di cda. I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (37,9%) rispetto a quelli europei (32,5%). Ampiamente sopra la media europea si collocano i player francesi con una quota di donne presenti nei Cda pari al 41,7%. I gruppi italiani si fermano al 27,5%. Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni dieci consiglieri.

Dall’analisi dei bilanci di sostenibilità 2020 emerge la crescente attenzione alle tematiche Esg (Environment, Social and Governance), accelerata dalla pandemia. Le multinazionali della moda si sono impegnate per un futuro più sostenibile e per la salvaguardia dell’ambiente, con crescente incisività rispetto allo sforzo compiuto negli anni precedenti. Diminuiscono i consumi idrici, le emissioni di CO2, i rifiuti prodotti e aumenta il ricorso all’energia elettrica rinnovabile (dal 49,9% nel 2019 al 57,6% nel 2020, era al 42,6% nel 2018). Relativamente all’utilizzo di energia rinnovabile, i gruppi europei si posizionano meglio degli statunitensi, attingendo da fonti green il 67,5% del proprio fabbisogno energetico rispetto al 48,9% degli americani.

Relativamente alla supply chain, dai bilanci di sostenibilità emerge che i fornitori dei maggiori player mondiali del fashion sono localizzati per il 61% in Asia, per il 28% in Europa e per l’8% in Nord America, con punte di oltre il 90% in Asia per il fast fashion e l’abbigliamento e calzature sportive. Infine, un segnale inequivocabile dell’eccellenza della filiera italiana: mediamente, oltre un quarto dei fornitori dei gruppi europei della moda ha sede in Italia, con picchi di oltre l’80% nella fascia alta del mercato.

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