Storia & storie | 05 febbraio 2022, 10:26

Michele Ansaldi, dalla Tarizzo a socio della Fiat

Michele Ansaldi, dalla Tarizzo a socio della Fiat

di Francesco Amadelli*

A Favria Canavese, vicino a Torino, pochi anni dopo l’Unità d’Italia sorse, per merito di Ludovico Tarizzo, una grande industria meccanica per la produzione di macchine utensili. Nel 1878 Michele Ansaldi ne divenne socio, fondando la Tarizzo-Ansaldi con l’obiettivo di ampliarla. Ma come spesso succede fra soci il sodalizio durò fino al 1884, anno in cui Ansaldi decise di separarsi e creare una propria azienda di macchine utensili, sempre a Torino, in via Ponte Mosca, oggi corso Giulio Cesare, al numero 38/40.

Con rigore quasi maniacale, Ansaldi la trasformerà nella maggiore azienda del settore in Italia, arrivando in pochi anni ad avere alle proprie dipendenze circa 300 operai dai 35 iniziali.

Ben presto la sede iniziale si dimostrerà insufficiente a contenere personale e produzione e Ansaldi sarà costretto a trasferirsi in un’altra zona, più esattamente in via Cuneo 17, ove sorgeranno le Officine Meccaniche Michele Ansaldi, divenute in seguito semplicemente Michele Ansaldi &C.

La costruzione dell’enorme edificio, ideato inizialmente dall’architetto Pietro Fenoglio ma completato e ingrandito secondo le direttive di Mattè Trucco, sebbene Ansaldi l’avesse pensato in un’area molto periferica di Torino non incontrò il favore delle autorità comunali in quanto veniva a tagliare una direttrice lungo la quale sarebbe dovuta sorgere una grande via di comunicazione. A nulla valsero i richiami al Piano Regolatore appena approvato, che prevedeva lo sviluppo della città secondo uno schema preciso privilegiando l’ingresso a Torino attraverso la “Strada d’Italia”, ovvero l’odierno corso Vercelli.

Ansaldi fece ricorso ad argomenti già sperimentati come il futuro impiego di molti lavoratori in una città nella quale, caduto il primato di Capitale d’Italia, la disoccupazione era materia di tutti i giorni. Quando sembrò che nulla potesse contro la risolutezza dei politici locali, Ansaldi sfoderò il suo asso nella manica: “se non mi permetterete di costruire lo stabilimento – disse l’industriale – ebbene me ne andrò a costruirlo a Milano. Lì mi aspettano a braccia aperte”. Il sistema, utilizzato ancor oggi e dal sapore ricattatorio, fece breccia nell’animo degli amministratori cittadini. Il permesso fu accordato e, come d’incanto, si accorsero che poi in fondo uno stabilimento non avrebbe nuociuto al Piano Regolatore, sul quale si sarebbe potuto intervenire con una semplice variante da approvare in tempi rapidi.

Torino e Milano erano all’epoca, e lo sono state per molti anni, in forte contrapposizione, specie sul piano industriale; ma la maggiore ecletticità della capitale lombarda e una profonda crisi industriale piemontese, dovuta in gran parte alla decrescita della Fiat, hanno sancito la supremazia di Milano. In ogni cas,o la concorrenza fra le due città rimane un problema aperto al quale la politica degli ultimi anni non ha posto mano, facendo ricorso all’immobilismo dei tanti governi che si sono succeduti.

L’imponente immobile di via Cuneo fu edificato e portato a termine da Mattè-Trucco, lo stesso che profuse tutte le sue energie nella costruzione del Lingotto; anzi, ne fu il banco di prova perché si fece largo uso del cemento armato, invenzione del famoso architetto americano Frank Lloyd Wright. La struttura, passata in seguito alla Fiat, diverrà sede della Grandi Motori.

Ansaldi comprese a quel punto come il suo nome fosse divenuto potente, quasi intoccabile e se ne uscì con un’idea rivoluzionaria: fondò “L’Emporio Meccanurgico Italiano” ovvero una sorta di cartello che sotto il termine Emporio riuniva i maggiori costruttori di macchine utensili di Torino e di Milano, città che esercitava un forte magnetismo nei suoi confronti. Spesso sono le piccole parole a fare la differenza e ciò che fu definito con un neologismo della lingua italiana, oggi sarebbe stato specificato con un termine inglese tale da confondere le idee sulle reali intenzioni di quell’azienda.

Consapevole della propria forza produttiva, Ansaldi intendeva contrastare la concorrenza straniera. Comprese altresì che l’automobile presto sarebbe divenuta la “gallina dalle uova d’oro” dell’industria meccanica italiana, cioè proprio quel ramo d’azienda che egli sapeva condurre saggiamente secondo una logistica totalmente sconosciuta alle concorrenti.

All’inizio del 1905 concluse un accordo con la Fiat per la produzione di vetture economiche (non di lusso come erano soliti fare tutti coloro che si gettavano nella produzione automobilistica) e firmò un contratto per la creazione della Soc. Fiat-Ansaldi appoggiata dalla Banca Commerciale Italiana. Ma i contrasti nacquero subito col presidente della Fiat, Scarfiotti, cosicché Ansaldi nel 1906 si vide costretto a lasciare il pacchetto azionario alla Fiat, poco propensa a vedere nascere un concorrente in casa. La Fiat verrà appoggiata dalla Banca Commerciale Italiana sorta alla fine del XIX secolo per opera di un pool di Banche tedesche e svizzere. L’uscita definitiva di Ansaldi avverrà nel 1911. Nel 1906 però si unì a Matteo Ceirano per la creazione della SPA (Società Piemontese Automobili) che, paradossalmente, verrà assorbita dalla Fiat 20 anni dopo.

La Fiat-Ansaldi, nonostante la sua breve vita, riuscì a produrre un modello di vettura 10/12 HP abbastanza innovativa dato che presentava un telaio pre-formato (cioè sagomato nella parte posteriore, atto ad accogliere più agevolmente l’albero di trasmissione, anziché le catene come in voga fino ad allora).

La Fiat, forte delle nuove officine di via Cuneo ulteriormente ingrandite, convertì la ragione sociale della Fiat-Ansaldi in “Società Brevetti Fiat” la quale sfornò le sua prima vettura utilizzando il motore da 10/12 HP già esistente, portato subito dopo a 12/16 HP nella Brevetti tipo 2. Meccanicamente l’auto presentava delle innovazioni come la frizione a dischi multipli e il cambio a 4 marce anziché a 3 come solitamente avveniva per le vetture della concorrenza. Si trattava di vetture con carrozzeria landaulet che vennero prodotte fino al 1909, anno in cui la Fiat mise in liquidazione la neo-nata società assorbendola nella produzione Fiat secondo un concetto di economia di scala tanto caro agli americani, che lo adotteranno nel 1908 con la Ford T.

Soltanto una di queste vetture sopravvisse fino a tempi più recenti. Fu utilizzata dal presidente del Messico, Porfirio Diaz, ma di proprietà di un’azienda di imbottigliamento di birra. Finirà nelle mani del campione del mondo di Formula 1 Phil Hill dopo essere transitata attraverso diversi musei.

Il grande impianto di via Cuneo fu utilizzato diversamente divenendo ben presto sede della Fiat Grandi Motori.

* Scrittore e storico dell'auto