- 17 ottobre 2021, 08:30

Perché rileggere "Tempo di uccidere"

Perché rileggere "Tempo di uccidere"

di Francesco Amadelli

“Tempo di uccidere” è’ l’unico romanzo di Ennio Flaiano con il quale vinse la prima edizione del Premio Strega nel 1947 al quale partecipò dietro insistenza di Leo Longanesi. E’ un romanzo senza tempo, in grado di ripresentarsi al Premio Strega di quest’anno con la certezza di vincere nuovamente.

Di Ennio Flaiano conosciamo gli aforismi, la scrittura graffiante, le pagine oniriche tanto amate da Federico Fellini, del quale fu collaboratore, le critiche pungenti cosicchè questo romanzo ci appare incompatibile con la sua personalità per la drammaticità degli avvenimenti, per le situazioni paradossali incontrate dall’autore nel corso della campagna d’Africa 1935/36 alla quale partecipò personalmente con il grado di sottotenente del Regio Esercito.

La storia è costruita attorno al dialogo con se stesso piuttosto che con terze persone esistenti sì ma percepite come personaggi indipendenti l’uno dall’altro, come marionette utili soltanto a farlo riflettere e incapaci di condurlo a una conclusione convincente più per se stesso che per il lettore.

Tutto nasce dal mal di denti del protagonista costretto a raggiungere il più velocemente possibile un villaggio abissino ove troverà un dentista. Ma la strada che percorrerà è irta di pericoli, di incontri rischiosi. La conoscenza casuale di una donna indigena con la quale potrebbe avere un rapporto sessuale, dato che egli è il bianco padrone e nessuno è in grado di ostacolarlo in questo suo proposito, si risolve con la morte accidentale della donna per mano del protagonista. Un’ombra scambiata per un mostro, forse una belva lo portano a sparare nella penombra. Comincia l’odissea dell’assassino preoccupato per le conseguenze del proprio gesto davanti alla legge piuttosto che per la morte della povera innocente alla quale rifiuta aiuto. Sarà un percorso pieno di imprevisti accompagnato dai dialoghi con se stesso e con coloro che incontrerà fossero animali o esseri umani. Se la denuncia dovesse pervenire non appena arrivato al villaggio scatterebbe l’arresto al quale non si sottrarrebbe poiché ammetterebbe di averlo commesso con l’unica scusante che fu costretto a uccidere. Incontrerà Johannes, un ascari, con il quale parlerà in italiano, troverà un compagno recalcitrante in un asino dal pelo bianco. Come nel romanzo “La Peste” di Camus un contagio con i suoi lunghissimi tempi di incubazione incombe minaccioso sul protagonista: la lebbra. Il timore di averlo contratto non lo abbandonerà fino alla fine, come una maledizione di cui non sa darsi spiegazione.

Camminerà dialogando con il proprio ego in una sorta di confessione della sua vita attraverso la boscaglia, sull’altipiano, pronto a sparare di nuovo. L’incontro con un disonesto Maggiore dell’Esercito lo nauserà. In lui nascerà forte la convinzione della inevitabile denuncia prossima a scattare a seguito del delitto. Il dramma si amplifica e assume toni maggiormente tragici quando incontrerà un coccodrillo, tanto temuto ma che si risolverà senza danni. La figura del coccodrillo ritornerà nel corso del romanzo quale elemento incombente e spaventoso. Il libro, nell’intenzione dell’autore, si sarebbe dovuto chiamare inizialmente “Il Coccodrillo”, Longanesi non glielo permise.

Giungerà al villaggio ove incontrerà un sottotenente al quale racconterà tutta la sua storia scoprendo così l’inesistenza di una qualsiasi denuncia e toccherà con mano la complicità dell’ufficiale indifferente e distaccato.

A questo punto sarà il lettore a porsi la domanda se gli incontri ci furono realmente o furono un’invenzione del protagonista convinto che l’espiazione della colpa possa avvenire dentro la propria anima in una sorta di introspezione/confessione. Il romanzo rimane validissimo a tutt’oggi e andrebbe riletto per coglierne gli aspetti più intimi e intensi che, a mo’ di esame di coscienza, nel corso della vita inevitabilmente riguardano, prima o poi, tutti noi.




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