Rispetto a 12 anni fa, infatti,
dobbiamo “riconquistare” ancora 4,2 punti percentuali di Pil, ma
anche 19,2 punti di investimenti, 5,9 punti di reddito disponibile
delle famiglie e 1,4 punti percentuali di consumi delle famiglie.
Queste difficoltà, purtroppo, continuano a perdurare, nonostante che
gli occupati siano cresciuti dell’1,6% (abbiamo superato la soglia
di 23 milioni di lavoratori). Ma il monte orario e il livello medio
delle retribuzioni sono diminuiti, a causa di un deciso incremento
della precarietà, mentre la disoccupazione è aumentata dell’81%(il
tasso medio annuo era al 6 e ora si aggira attorno al 10%).
Con meno soldi a disposizione, dobbiamo
ancora recuperare 5,9 punti di reddito disponibile delle famiglie e
1,4 punti di consumi. Dall’analisi di questi indicatori, infine,
l’unico segnale veramente positivo giunge dalle esportazioni:
rispetto al 2007 sono salite del 17,5%, interessando, principalmente,
le regioni del Centronord.
“Va comunque sottolineato –
commenta Paolo Zabeo, il coordinatore dell’Ufficio studi Cgia - che
l’andamento medio della ricchezza prodotta nel nostro Paese risente
delle forti differenze esistenti tra Nord e Sud. Negli ultimi 20
anni, il Settentrione è cresciuto del 7,5%, il Mezzogiorno, invece,
è crollato di 6 punti percentuali. Sempre in questo arco temporale,
la crescita media annua registrata nel Settentrione è stata dello
0,4%, pari al doppio del risultato medio nazionale. Nel Meridione,
invece, il Pil medio annuo ha subito una contrazione dello 0,3%”.
E le previsioni, purtroppo, non
lasciano presagire nulla di buono. Come ha segnalato nei giorni
scorsi anche l’Ocse, sia nel 2019 che nel 2020 la crescita del Pil
italiano sarà dello zero virgola. Un trend condizionato da una
situazione economica mondiale molto difficile, che sta diffondendo
segnali di incertezza e di sfiducia in tutta l’area dell’euro
che, comunque, dal 2000 è cresciuta del 30%, sette volte in più
dell’incremento registrato dall’Italia.
Bassa produttività del sistema paese,
deficit infrastrutturale, troppe tasse e una burocrazia ottusa ed
eccessiva sono le principali cause di questo differenziale con i
nostri principali partner economici. Se, però, sempre in questo arco
temporale analizziamo l’andamento dei nostri conti pubblici, il
rigore non è mai venuto meno. “Negli ultimi 18 anni – ha
evidenziato Renato Mason, il Segretario della Cgia - solo nel 2009,
il saldo primario, dato dalla differenza tra le entrate totali e la
spesa pubblica totale al netto degli interessi sul debito pubblico, è
stato negativo. In tutti gli altri anni, invece, è stato di segno
positivo e, pertanto, le uscite sono state inferiori alle entrate. A
ulteriore dimostrazione che dall’avvento della moneta unica,
l’Italia ha mantenuto l’impegno di risanare i propri conti
pubblici, nonostante gli effetti della crisi economica siano stati
maggiormente negativi da noi che altrove”.
Secondo la Cgia, il tema degli
investimenti rimane centrale per delineare qualsiasi politica di
sviluppo economico. Senza investimenti non si creano posti di lavoro
stabili e duraturi in grado di migliorare la produttività del
sistema e, conseguentemente, di far crescere il livello delle
retribuzioni medie e dei consumi.
Il crollo degli investimenti avvenuto
in questi ultimi anni è dovuto alla crisi, ma anche ai vincoli
sull’indebitamento netto che ci sono stati imposti da Bruxelles.
Una serie di vincoli che, comunque, potremmo superare se, come
prevede il Fiscal Compact, l’Unione europea introducesse la golden
rule. Ovvero, la possibilità che gli investimenti pubblici in conto
capitale vengano scorporati dal computo del deficit ai fini del
rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri.
Alla luce di questo quadro emerso
dall’analisi effettuata dall’Ufficio studi, la Cgia indica almeno
cinque interventi che il nuovo Governo dovrebbe attuare per
rilanciare l’economia, puntando, in particolar modo, sulle esigenze
delle Pmi che costituiscono il tessuto connettivo del Paese: Primo
intervento: forte riduzione delle tasse e semplificazione del sistema
tributario. Come ? Tagliando il cuneo fiscale, eliminando l’Irap
per le micro e piccole imprese, abolendo lo split payment, il reverse
charge nell’edilizia e riducendo progressivamente gli acconti
Irpef, Ires, Irap e Inps. Altresì, è importante ridimensionare il
peso della burocrazia fiscale che sta penalizzando soprattutto le
piccolissime attività.
Secondo: favorire l’accesso al
credito. Dal 2011 ad oggi gli impieghi alle imprese sono diminuiti
del 27%. E’ importante promuovere un intervento concertato con gli
altri Stati e presso le istituzioni europee affinché la Bce eroghi
speciali finanziamenti alle banche con vincolo di destinazione a
favore delle micro e piccole imprese. Inoltre, è necessario attivare
strumenti di finanziamento alternativi al credito bancario. Infine,
va consentito a tutte le imprese di compensare i crediti verso la Pa
(certi, liquidi ed esigibili) con tutti i debiti fiscali.
Terzo:tornare ad investire Rispetto al
2007 (anno pre-crisi) in Italia gli investimenti sono crollati di
quasi 20 punti percentuali. Per consentire anche alle piccole imprese
di crescere e creare lavoro, è necessario che lo Stato centrale
torni ad investire in infrastrutture materiali ed immateriali,
superando i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles.
Quarto: Incentivare gli interventi per
il lavoro e la formazione Vanno inoltre resi stabili e non limitati
nel tempo gli incentivi per favorire l’ingresso dei giovani nel
mercato del lavoro anche come neo-imprenditori.
Quinto: Investire nell’impresa 4.0 e
nell’utilizzo del digitale. Fino ad ora gli effetti dell’iniziativa
impresa 4.0 hanno interessato quasi esclusivamente le imprese di
media e grande dimensione. Si deve pensare anche alle micro imprese e
a quelle artigiane, che intraprendono il percorso di trasformazione
digitale con il medesimo interesse comunicativo, le stesse corsie
preferenziali burocratiche e le medesime risorse speciali attribuite
alle start-up e Pmi tecnologiche.